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Per dare un senso alle proposte che seguiranno è indispensabile stabilire prioritariamente di cosa e di chi stiamo parlando. E’ necessario conoscere, seppur in modo assolutamente conciso e stringato, quali siano le caratteristiche comportamentali dei soggetti autistici e le loro particolari necessità.
E’ ormai acclarato che l'autismo è un disturbo pervasivo dello sviluppo di natura organica, conseguenza di diversi tipi di danni di origine neurologica, di eziologia generalmente non definita.
E’ un disturbo che è difficile da diagnosticare perché i bambini che poi verranno considerati autistici non presentano alla nascita segni particolari che ne contraddistinguono subito il destino. Non vi sono marker biochimici utili a tal pro, l’unico modo di diagnosi precoce è rappresentata dall’analisi e dalla osservazione sintomatologica del comportamento, analisi spesso molto difficile anche per i genitori e familiari, che, pur avendo spesso qualche sospetto relativo a comportamenti un po' strani e a piccoli ritardi nello sviluppo, aspettano elementi di certezza nella speranza che tutto rientri nella norma. Inoltre le caratteristiche che li assimilano stanno all’interno di un quadro sindromico ed in presenza di un continuum, spettro, i cui poli sono costituiti da soggetti autistici a basso funzionamento (low functioning) e da soggetti autistici ad alto funzionamento (high functioning), con in mezzo una quantità, pressoché illimitata, di declinazioni. E’ proverbiale, seppur in un quadro complessivamente deficitario, l’esistenza di “isole di abilità” particolari. I soggetti autistici, anche quelli a basso funzionamento, non possono essere assimilati ai soggetti con un generico ritardo mentale.
“L'autismosi manifesta entro il terzo anno di età con gravi deficit nelle aree della comunicazione (turbe qualitative e quantitative del linguaggio), dell’interazione sociale (turbe qualitative e quantitative delle capacità relazionali, con tendenza evidente all’isolamento, con cecità sociale), dell’immaginazione (uso inappropriato e stereotipato di oggetti), con problemi di comportamento (auto ed etero aggressività, iperattività fisica accentuata, e con ipersensibilità (alle variazioni dell’ambiente circostante o delle figure di riferimento affettivo); che pur accompagnandosi ad un aspetto fisico normale, perdura per tutta la vita” (Arduino, 2007).
In questo contesto ci preme sottolineare il “perdura tutta la vita”, perché anche se l’autismo è considerato un disturbo dello sviluppo, ed anche se si pensa all’autistico bambino, lo stesso soggetto cresce e diventa un adulto (es. Rayman) ma sempre autistico per il quale, proprio in considerazione della tipologia del disturbo, non acquisirà mai una totale autonomia, dovrà essere sempre, per tutta la vita, organizzato, tutelato, e protetto. E’ proverbiale l’indole passiva e remissiva dei soggetti autistici. In questo quadro il pensiero e l’obiettivo di preparare ed organizzare il “dopo di noi” rimane uno degli impegni che i parenti dei soggetti autistici cercano di raggiungere con non qualche angoscia, e che, al contrario, vede sordo il welfare che tende a scaricare sulle famiglie tutto il peso di questo grave handicap con il “ci penserò poi”!
“Ma se l’autismo dura tutta la vita, che cosa vuol dire pensare all’autismo nell’ottica del ciclo di vita, quali possono essere i luoghi, i contesti, i dispositivi di intervento adatti non solo a ‘bambini’, ma ad adulti diventati grandi con il loro autismo, in grado di garantire e rispettare il loro diritto ad una ‘adultità’, sia pure autistica? Idonei a favorire, per quel tanto che è possibile, una progressiva emancipazione dalle loro provate famiglie, in attesa oltre che in preparazione di quella separazione definitiva che, inevitabilmente, comunque verrà?” (Ucelli, 2006).
A livello epidemiologico stiamo parlando di un numero di soggetti colpiti da questo disturbo complessivamente molto rilevante. “In base al dato dei soggetti diagnosticati in età evolutiva (3.3 su 1000), appartenenti alla categoria dei Disturbi pervasivi dello Sviluppo (DPS) con particolare riferimento ai disturbi dello spettro autistico, possiamo stimare in Regione Piemonte oltre 12.000 soggetti di tutte le età con queste patologie” (Deliberazione della Giunta Regionale del 3 marzo 2014, n. 22-7178), di cui ben 8.000 adulti.
Partendo dalla breve descrizione che abbiamo fatto delle caratteristiche comportamentali dei soggetti autistici, possiamo dire che l’ingaggio che ha, per certi aspetti affascinato il mondo clinico da quando nel lontano 1943 questo disturbo non è più stato considerato una malattia mentale o psicosi, è riuscire ad educare e a far apprendere delle abilità di vita e di autonomia verso le quali il soggetto autistico sembra, soprattutto in tenera età, naturalmente refrattario, e stabilire quale sia il miglior modo per superare questo gap e in quale contesto di vita ciò possa succedere, un po’ come è successo con il “fanciullo selvaggio dell’Aveyron”. Per il soggetto autistico non si può parlare di riabilitazione …. le abilità non sono mai state acquisite … si deve parlare di abilitazione. Si deve spesso partire da zero!
Attualmente si cerca di coniugare la necessità di un intervento precoce volto all’acquisizione delle abilità indispensabili all’autonomia di vita con un approccio comportamentale più soft, all’interno del quale l’aspetto emotivo e relazionale assumono un’importanza basilare.
L’apprendimento per un soggetto autistico è sicuramente favorito da un contesto nel quale il rapporto con le persone e con l’ambiente è il meno iatrogeno possibile. L’educazione alla socialità sarà favorita dal rapporto uno a uno, o in un contesto di piccolo gruppo, e l’apprendimento di esperienze sarà favorito da un contesto ambientale nel quale l’ipersensibilità sensoriale non sarà eccessivamente stimolata.
“II tipo di educazione destinata ai soggetti con autismo si discosta dal tipo di educazione normalmente prevista per i soggetti con sviluppo tipico in quanto essa non è finalizzata tanto all’apprendimento di abilità accademiche quanto al miglioramento nelle competenze tipicamente compromesse. L’educazione sarà quindi un’educazione continuativa, volta al miglioramento delle abilità sociali e comunicative, allo sviluppo di un comportamento più adeguato e alla diminuzione dei problemi di comportamento” (Vivanti, 2006). Ed aggiungeremo che tutto questo può essere favorito da un contesto nel quale il soggetto autistico, a tutte le età, può, proprio ed anche in considerazione del suo deficit di immaginazione che rende l’apprendimento teorico improponibile, acquisire abilità e conoscenze su base esperienziale vedendo fare cose concrete, a contatto con un mondo dove, quasi tutto, ha un senso compiuto, la filiera è corta. Dove ci sono le cose finite e conosciute che si possono toccare: animali, frutta, verdura. Dove il ciclo produttivo è breve e più comprensibile: si prepara il terreno, si semina, si raccoglie e si consuma. Un apprendimento costruito sulle esperienze che hanno un significato e vengono direttamente vissute dal soggetto! Il tutto in un contesto ambientale nel quale anche sul piano percettivo, uditivo, visivo ed olfattivo, altro particolare deficit della sindrome, il soggetto è poco disturbato e sollecitato. Sul piano relazionale ed umano, il contesto agricolo favorisce naturalmente il rapporto uno a uno, od in piccoli gruppi, quadro preferibile per il soggetto autistico in considerazione delle sue note difficoltà a decodificare sia il linguaggio verbale che quello non verbale.
Ecco che l’ambiente agricolo può declinarsi molto bene alle necessità di vita e lavorative dei soggetti autistici. L’idea che solo in città, immersi tra la folla ed occupati in attività parcellizzate, si possa proporre un percorso di vita, di sviluppo ed educativo, è assolutamente limitato e fuorviante.
All’estero vi sono da più tempo esperienze in ambito agricolo come le “Farm Community”, punto di arrivo di una critica all’esperienza ed alla presenza di Comunità per adulti autistici in un contesto cittadino, con l’idea ed il presupposto che questo favorisse l’integrazione e l’inclusione, obiettivo che si è rivelato fallimentare. Negli USA questa critica è arrivata a mettere in discussione con un articolo: “Community, my foot!” …. “Comunità dei miei stivali!” il progetto nel suo insieme.
In Italia la prima esperienza del genere è stata fatta a Rossago (PV), ne elenchiamo i presupposti che condividiamo totalmente:
Il progetto “Rossago” si conforma al paradigma delle “Community Farm”, e prevede il riutilizzo di cascine preesistenti all’interno delle quali non potranno che vivere e risiedere un numero limitato di soggetti autistici, anche se in condizioni particolari e sulla base di un progetto studiato ad hoc con grande professionalità. Anche questo è un eccellente modo per risolvere il problema dell’organizzazione della vita dei soggetti autistici e del “dopo di noi”, ma, in considerazione dell’investimento complessivo umano e di capitale, il suo limite è in assoluto la sua difficile replicabilità, in particolare in questo specifico momento economico nel quale il welfare viene vissuto dalla politica come una zavorra allo sviluppo.
Il nostro progetto, prendendo a riferimento il paradigma dell’“Agricoltura Sociale”, si propone di inserire sul territorio un numero di soggetti autistici il più alto possibile distribuiti all’interno delle molteplici realtà economico-agricole, di più dimensioni, ma già esistenti, con un impatto economico assolutamente contenuto e che prevede premiata anche la disponibilità dell’agricoltore
“Dal dire al fare”.
Tutto quello che abbiamo detto, proprio perché rappresenta una prima sperimentazione, dovrà essere declinato in diversi step:
E’ indispensabile sottolineare che, vista la limitata autonomia dei soggetti autistici, gli stessi saranno accompagnati, durante l’esperienza e/o almeno in una prima fase, da personale adeguatamente formato in funzione protesica.
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Emilio ETS | Autismo, natura e psicologia | Tel: +39.3356343021 | Email: emilioonlus@gmail.com
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